Il nostro tempo si sforza di trovare una parola con la quale esprimere il proprio spirito. Si fanno quindi avanti molti nomi e tutti pretendono di essere quello giusto. Sotto tutti i punti di vista il nostro tempo mostra il più vario brulichio di parti; le aquile del momento attuale si radunano intorno all’eredità del passato, che si sta decomponendo. Vi è dappertutto una grande quantità di cadaveri politici, sociali, ecclesiastici, scientifici, artistici, morali ed altri ancora; e finché tutti questi cadaveri non saranno consumati, l’aria non sarà pura, pesante rimarrà il respiro.
Senza la nostra collaborazione il tempo non tirerà fuori la parola giusta: tutti vi dobbiamo collaborare. Se però tanto dipende da noi, allora è giusto che ci chiediamo che cosa si è fatto e si pensa di fare di noi; ci domandiamo con quale tipo di educazione si cerca di metterci in grado di creare quella parola. Si educa coscienziosamente quella predisposizione che abbiamo a diventar creatori o ci si tratta soltanto come creature, la cui natura tollera un puro addestramento? La questione è altrettanto importante quanto soltanto può esserlo una delle nostre questioni sociali; anzi è la questione più importante, perché quelle si appoggiano su questa come sul loro fondamento. Se voi siete qualcosa di valido, allora opererete anche qualcosa di valido. Ognuno sia “perfetto in se stesso”: allora anche la vostra comunità, la vostra vita sociale sarà perfetta. Pertanto noi ci preoccupiamo soprattutto di ciò che si fa di noi nel tempo in cui possiamo venire educati: il problema della scuola è il problema della vita. Ciò salta abbastanza agli occhi anche adesso. Da anni si combatte su questo terreno con un calore e una franchezza che superano quelle del terreno politico, perché non urtano contro gli ostacoli di un potere dispotico. Un venerabile veterano, il professor Theodor Heinsius che, come il compianto professor [Wilhelm Traugott] Krug, fino alla tarda età ha conservato forza e solerzia, ha cercato recentemente con un piccolo scritto di eccitare nuovamente l’interesse per questo argomento. Il titolo è: Konkordat zwischen Schule und Leben oder Vermittlung des Humanismus und Realismus, aus nationalem Standpunkt betrachtet, [Concordato tra la scuola e la vita o una conciliazione tra umanesimo e realismo, considerato da un punto di vista nazionale], Berlin 1842. Due partiti, gli umanisti e i realisti, lottano per la vittoria. Ciascuno dei due vuole raccomandare il suo principio educativo come l’autentico e il migliore per le nostre necessità. Non volendosi litigare con gli uni o con gli altri, Heinsius nel suo libretto parla con quella mitezza e spirito conciliante, che mirano a riconoscere alle due parti il proprio diritto, ma che intanto commettono la più grande ingiustizia verso la questione stessa, perché a questa si tende un servizio soltanto con una decisione tagliente. Questo peccato contro lo spirito della questione resta ormai l’eredità irrifiutabile di tutti i mediatori di poco coraggio. I “concordati” offrono soltanto un ripiego:
Soltanto franco come un uomo: pro o contro,
e come la parola d’ordine: schiavo o libero!
Anche gli dèi discesero dall’Olimpo,
e combattono sulla torre del partito.
[Georg Herwegh, Die Partei]
Prima di arrivare alle sue proposte proprie, Heinsius traccia un breve schizzo dello sviluppo storico dopo la Riforma. Il periodo tra la Riforma e la rivoluzione è quello del rapporto — il che qui voglio soltanto affermare senza motivare, perché penso di esporre la cosa più in dettaglio in altra occasione — tra maggiorenni e minorenni, tra dominanti e asserviti, tra potenti e impotenti. Per dirla in breve, è il periodo della sudditanza. A prescindere da ogni altro motivo che potesse giustificare una superiorità, la cultura — in quanto potere — sollevò chi così la possedeva al di sopra dell’impotente, cioè di chi che ne era privo. E la persona colta passò nel suo ambiente (grande o piccolo che fosse) per potente, forte, per uno che si impone: infatti costui era un’autorità. Non tutti potevano essere chiamati a tale posizione di dominio o a tale autorità; perciò anche la cultura non era per tutti, perché una cultura di tutti sarebbe stata in contraddizione con quel principio. La cultura procura una superiorità e rende signori: e così in quell’epoca di signori essa era un mezzo per dominare. Soltanto la rivoluzione spezzò il regime dei padroni e dei servi. Allora entrò in vigore il principio che ognuno doveva essere padrone di se stesso. Ciò comportò la necessaria conseguenza che la cultura, la quale rende signori, d’ora in poi doveva essere universale; e ovviamente si impose il compito di trovare ormai la vera cultura universale. Il bisogno di una cultura universale, accessibile a tutti, dovette trasformarsi in lotta contro quella cultura che testardamente si affermava come esclusiva; e la rivoluzione dovette alzare la spada anche in questo campo contro il dispotismo del periodo della Riforma. L’idea della cultura universale urtò contro la cultura esclusiva; a questo riguardo la guerra e la lotta si trascinarono attraverso fasi diverse e sotto molti nomi fino ai nostri giorni. Per le opposte posizioni, che si affrontano nei due campi avversi, Heinsius ha scelto i nomi di umanesimo e realismo, e noi vogliamo mantenerli perché per quanto non molto felici, sono però i più diffusi.
Fino al XVII secolo, quando l’Illuminismo cominciò a diffondere la sua luce, la cosiddetta cultura superiore rimase incontestabilmente nelle mani degli umanisti e si basava quasi esclusivamente sullo studio dei classici antichi. Su un binario parallelo procedeva un’altra cultura, la quale cercava pure un modello nell’antichità e sostanzialmente equivaleva ad una notevole conoscenza della Bibbia. Il fatto che in entrambi i casi si scegliesse a propria unica materia la miglior cultura del mondo antico, dimostra abbastanza chiaramente quanto la propria vita non offrisse ancora qualcosa di pregevole e quanto noi fossimo ancora lontani dal poter creare le forme della bellezza con una nostra originalità e il contenuto della verità con la nostra ragione. Noi non dovevamo che imparare forma e contenuto: eravamo apprendisti. E come il mondo antico dominava da padrone su di noi attraverso i suoi scultori e la Bibbia, così l’esser signori e servi — il che può essere storicamente dimostrato — era la sostanza di tutte le nostre vicende; e solamente da questo carattere dell’epoca si spiega perché con tanta naturalezza si aspirasse ad una “cultura superiore” e si ambisse a contraddistinguersi per essa davanti al popolino. Chi possedeva cultura diventava padrone degli incolti. Una cultura popolare gli sarebbe stata nemica, perché il popolo doveva rimanere in “stato laicale” di fronte ai dotti signori e doveva soltanto ammirare e venerare questa signorilità, che gli era estranea. Così il romanismo continuò fra le persone colte; i suoi sostegni sono il latino e il greco. Inoltre non poté non succedere che questa cultura rimanesse del tutto formale; sia perché dell’antichità, da un pezzo morta e sepolta, potevano mantenersi soltanto le forme, direi quasi gli schemi della letteratura e dell’arte; e sia soprattutto perché la signoria sugli uomini viene acquisita e mantenuta proprio attraverso una superiorità formale: si richiede soltanto un certo grado di capacità intellettuale per essere superiori agli incapaci. La cosiddetta cultura superiore era perciò una cultura elegante, un sensus omnis elegantiae, una cultura del gusto e del senso della forma, che in fondo minacciava di scadere a cultura puramente grammaticale e che tanto profumava dei profluvi del Lazio la stessa lingua tedesca che ancor oggi si ha l’occasione di ammirare nelle più belle costruzioni di frasi alla latina, per esempio, nella Geschichte des brandenburgisch- preussischen Staates [Storia dello Stato brandeburghese-prussiano], Berlin 1842. Un libro per tutti, di Alfred Zimmermann, recentemente apparso.
Intanto dal razionalismo nasceva a poco a poco uno spirito di opposizione a questo formalismo; e al riconoscimento degli universali e stabili diritti umani si abbinava la richiesta di una formazione umana, che fosse per tutti. La carenza di un’istruzione reale e che incidesse nella vita era evidente nel modo in cui finora avevano proceduto gli umanisti. Tale carenza produsse l’esigenza di una formazione pratica. D’ora in poi qualsiasi sapere doveva diventare vita; il sapere doveva diventare qualcosa di vissuto. Infatti soltanto un sapere che si fa realtà è la perfezione del sapere stesso. Se si fosse riusciti ad introdurre nella scuola la materia della vita e ad offrire così a tutti qualcosa di utile e proprio per questo a guadagnare tutti a questa preparazione alla vita, dirigendoli alla scuola, il popolo non avrebbe più invidiato per il loro sapere fuori del comune i dotti signori e avrebbe messo fine al suo “stato laicale”. Superare lo “stato sacerdotale” dei dotti e lo “stato laicale” del popolo è l’aspirazione del realismo; e ciò supera necessariamente l’umanesimo. Il fatto di cominciare a rifiutare di far proprie le forme dell’antichità classica comportò che la signoria dell’autorità perdesse il suo nembo. Il tempo recalcitrò contro il rispetto tradizionalmente dovuto all’erudizione, come in genere si ribellò contro qualsiasi rispetto reverenziale. L’essenziale superiorità dei dotti, cioè la cultura generale, doveva diventare un bene per tutti. Ma che cos’è la cultura generale — ci si chiedeva — se non (in parole povere) la capacità di “poter interloquire su tutto” o (in parole più gravi) la capacità di padroneggiare ogni argomento? Era a tutti evidente che la scuola era rimasta indietro in confronto alla vita, perché non solo era sottratta al popolo, ma anche perché quelli che frequentavano la scuola trascuravano la cultura generale per una cultura esclusiva. La scuola non teneva buona una gran quantità di materia che la vita ci impone di padroneggiare già dai banchi della scuola stessa. La scuola — così si pensava — deve pur tracciare le linee fondamentali del nostro armonizzarci con tutto ciò che la vita ci offre; e deve pur provvedere a che nessuno degli oggetti, di cui un giorno ci dovremo occupare, ci sia completamente estraneo e resti al di là delle nostre capacità. Perciò si cercò con grande zelo la dimestichezza con le cose e le vicende del nostro tempo e si assunse una pedagogia applicabile a tutti, che soddisfacesse il bisogno a tutti comune di orientarsi nel proprio mondo e nel proprio tempo. A questo modo quelli che sono i diritti umani per principio — l’uguaglianza e la libertà — acquistarono, in campo pedagogico, vita e realtà: l’uguaglianza, perché quella cultura era di tutti; e la libertà, perché, nelle cose di cui si aveva bisogno, si diventò abili e quindi indipendenti e a se stanti.
Però comprendere il passato — il che ci insegna l’umanesimo – e afferrare il presente – il che ha di mira il realismo —, tutt’e due non conducono che al potere sul temporale e caduco. Eterno è solo lo spirito che coglie se stesso. Perciò anche uguaglianza e libertà ricevettero soltanto un’esistenza subordinata. Si poteva diventare uguali agli altri ed emancipati dalla loro autorità. Ma dell’uguaglianza con se stessi, della composizione e riconciliazione del nostro uomo temporale ed eterno, della trasfigurazione della nostra natura a spirito; in una parola, dell’unità e dell’onnipotenza del nostro io, che basta a se stesso perché non lascia sussistere nulla di estraneo fuori di sé, di tutto questo in quel principio non si poteva riconoscere alcuna traccia. La libertà appariva soltanto come indipendenza dalle autorità: però era ancora vuota di autodeterminazione e non forniva ancora i fatti di un uomo libero in se stesso, auto-rivelazioni di uno spirito senza attenzioni riverenziali, cioè al riparo dal fluttuare dei ripensamenti. Certo, chi aveva una cultura formale non doveva più eccellere sopra il livello della cultura generale e da un uomo “di cultura superiore” si trasformò in un uomo “di cultura unilaterale” (in quanto tale egli mantiene naturalmente il suo valore incontestabile, poiché qualsiasi cultura generale è destinata ad irradiarsi nelle diverse uni- lateralità di una cultura speciale). Ma chi aveva quel tipo di cultura che voleva il realismo non andava neppure al di là dell’uguaglianza con gli altri e della libertà dagli altri; non andava al di là del cosiddetto “uomo pratico”. È bensì vero che la vuota eleganza dell’umanista, del dandy, non poteva sfuggire alla sconfitta; ma il vincitore brillava del verderame della materialità e non era nulla di più alto di un industriale senza gusto. Il dandysmo e l’industrialismo lottano per avere in preda amabili ragazzi e ragazze e, per allettarli, si scambiano le armi, per cui spesso il dandy si presenta con rozzo cinismo e l’industriale con biancheria candida. Certo il vivo legno della mazza ferrata dell’industriale manderà a pezzi il secco bastone del dandy smidollato; ma, vivo o morto, il legno rimane legno, e se la fiamma dello spirito deve splendere, il legno deve bruciare. Ma intanto perché anche il realismo deve ugualmente perire, se esso accoglie in sé (e non si può negare che abbia la capacità di farlo) ciò che vi è di buono nell’umanesimo? Certo esso può accogliere in sé ciò che vi è di inalienabile e di vero nell’umanesimo: la cultura formale. Il che gli è reso sempre più facile attraverso il modo scientifico (divenuto possibile) e razionale di trattare tutte le cose da insegnare (ricordo soltanto, a modo di esempio, ciò che [Karl] Becker ha fatto per la grammatica tedesca); e attraverso questa nobilitazione esso potrà scacciare il suo avversario dalla sua solida posizione. Siccome tanto il realismo quanto l’umanesimo partono dal principio che qualunque educazione è destinata a procurare all’uomo una capacità; e siccome tutt’e due concordano nel dire che — per esempio — sul piano del linguaggio si devono abituare gli uomini ad usare tutti i modi di dire che servono ad esprimersi, e sul piano della matematica si devono loro inculcare tutti i modi della dimostrazione, e così via; siccome tutt’e due concordano che si debba mirare a raggiungere la maestria nel maneggio della materia, cioè ad esserne padroni, allora non potrà certo non succedere che infine anche il realismo riconosca come scopo ultimo la formazione del gusto e metta in prima linea l’attività formatrice (come in parte già ora succede). Infatti in campo educativo tutta la materia data ha il suo valore soltanto per il fatto che i bambini imparano a far qualcosa con essa, ad usarla. È bensì vero — come sostengono i realisti — che rimane impresso soltanto ciò che è utile e che serve a qualcosa; però l’utilità dovrà essere creata soltanto nel formare, nel generalizzare, nel presentare, e non si potrà respingere quest’esigenza umanistica. Gli umanisti hanno ragione nel volere principalmente l’educazione formale; hanno torto nel non trovarla nella padronanza di qualunque materia. I realisti domandano una cosa giusta quando dicono che ogni materia deve cominciare ad essere trattata a scuola; ma sbagliano, quando non vogliono considerare come scopo principale l’educazione formale. Se il realismo esercita il giusto auto-rinnegamento e non si abbandona a traviamenti materialistici, può giungere a superare così il suo avversario e insieme a mettersi d’accordo con lui. Ma perché gli siamo ostili? Il realismo depone dunque davvero il fardello dei suoi vecchi princìpi ed è all’altezza dei tempi? Tutto resta da giudicare da qui: se si riconosce nell’idea che il nostro tempo si è conquistata come la cosa più cara o se occupa un posto stazionario dietro il nostro tempo. Deve cadere quell’inestinguibile paura, con cui i realisti rifuggono dall’astrazione e dalla speculazione. A questo scopo voglio addurre alcuni passi di Heinsius, che su questo punto non cede ai rigidi realisti e risparmia a me di citarli, il che mi sarebbe pur facile. A p. 9 Heinsius dice: “Negli istituti di cultura superiore si sentiva parlare dei sistemi filosofici greci, di Aristotele e Platone, ma anche dei sistemi filosofici moderni, di Kant (che presenta come indimostrabili le idee di Dio, della libertà, dell’immortalità), di Johann Gottlieb Fichte (che mette l’ordinamento morale del mondo al posto del Dio personale), di Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Hegel, Johann Friedrich Herbart, Karl Christian Krause, e come possono altrimenti definirsi tutti gli scopritori e annunciatori di una sapienza sovrumana. Ma che cosa dobbiamo fare noi — ci si chiede —, che cosa deve fare la nazione tedesca delle fantasticherie idealistiche, che non appartengono né alle scienze empiriche e positive né alla vita pratica, e neppure giovano allo Stato? Che ce ne facciamo di un sapere oscuro, che serve soltanto a confondere lo spirito del tempo, che conduce ad essere miscredenti e atei, che divide gli animi, che fa scappare gli studenti dalle cattedre dei suoi apostoli, e che addirittura rende oscura la nostra lingua nazionale, dato che trasforma in mistici enigmi i più chiari concetti della sana intelligenza umana? È questa la sapienza che deve educare i nostri giovani a diventare uomini moralmente buoni, ad essere persone riflessive e ragionevoli, fedeli cittadini, lavoratori utili e valenti nella loro professione, mariti amorosi e padri solerti nell’impiantare il benessere della loro famiglia?”. E a p. 45 Heinsius dice: “Se guardiamo la filosofia e la teologia, che come scienze del pensiero e della fede stanno in prima linea in ordine al bene del mondo, che cosa sono diventate attraverso i loro attriti vicendevoli, ai quali Lutero e Leibniz hanno aperto la strada? Il dualismo, il materialismo, lo spiritualismo, il naturalismo, il panteismo, il realismo, l’idealismo, il soprannaturalismo, il razionalismo, il misticismo e come altro si definiscono tutti gli “ismi” astrusi di speculazioni e sentimenti eccentrici: che beneficio hanno poi arrecato allo Stato, alla Chiesa, alle arti, alla cultura popolare? Il pensare e il sapere si è certo ampliato quantitativamente; ma il pensiero è forse diventato più chiaro e il sapere più sicuro? La religione, in quanto dogma, è più pura; ma la fede soggettiva è più confusa, indebolita, infranta nei suoi sostegni, scossa dalla critica e dall’ermeneutica, o trasformata in fanatismo oppure in ipocrisia farisaica. E la Chiesa? Ohimé, la sua vita è disunione e morte. Non è così?”. — Perché i realisti si mostrano così mal disposti verso la filosofia? Perché disconoscono la propria vocazione e vogliono a tutta forza restare limitati invece di sciogliersi da ogni limite. Perché odiano l’astrazione? — Perché sono essi astratti; perché astraggono dal perfezionamento di se stessi, dallo slancio verso la verità che redime.
Però comprendere il passato — il che ci insegna l’umanesimo – e afferrare il presente – il che ha di mira il realismo —, tutt’e due non conducono che al potere sul temporale e caduco. Eterno è solo lo spirito che coglie se stesso. Perciò anche uguaglianza e libertà ricevettero soltanto un’esistenza subordinata. Si poteva diventare uguali agli altri ed emancipati dalla loro autorità. Ma dell’uguaglianza con se stessi, della composizione e riconciliazione del nostro uomo temporale ed eterno, della trasfigurazione della nostra natura a spirito; in una parola, dell’unità e dell’onnipotenza del nostro io, che basta a se stesso perché non lascia sussistere nulla di estraneo fuori di sé, di tutto questo in quel principio non si poteva riconoscere alcuna traccia. La libertà appariva soltanto come indipendenza dalle autorità: però era ancora vuota di autodeterminazione e non forniva ancora i fatti di un uomo libero in se stesso, auto-rivelazioni di uno spirito senza attenzioni riverenziali, cioè al riparo dal fluttuare dei ripensamenti. Certo, chi aveva una cultura formale non doveva più eccellere sopra il livello della cultura generale e da un uomo “di cultura superiore” si trasformò in un uomo “di cultura unilaterale” (in quanto tale egli mantiene naturalmente il suo valore incontestabile, poiché qualsiasi cultura generale è destinata ad irradiarsi nelle diverse uni- lateralità di una cultura speciale). Ma chi aveva quel tipo di cultura che voleva il realismo non andava neppure al di là dell’uguaglianza con gli altri e della libertà dagli altri; non andava al di là del cosiddetto “uomo pratico”. È bensì vero che la vuota eleganza dell’umanista, del dandy, non poteva sfuggire alla sconfitta; ma il vincitore brillava del verderame della materialità e non era nulla di più alto di un industriale senza gusto. Il dandysmo e l’industrialismo lottano per avere in preda amabili ragazzi e ragazze e, per allettarli, si scambiano le armi, per cui spesso il dandy si presenta con rozzo cinismo e l’industriale con biancheria candida. Certo il vivo legno della mazza ferrata dell’industriale manderà a pezzi il secco bastone del dandy smidollato; ma, vivo o morto, il legno rimane legno, e se la fiamma dello spirito deve splendere, il legno deve bruciare. Ma intanto perché anche il realismo deve ugualmente perire, se esso accoglie in sé (e non si può negare che abbia la capacità di farlo) ciò che vi è di buono nell’umanesimo? Certo esso può accogliere in sé ciò che vi è di inalienabile e di vero nell’umanesimo: la cultura formale. Il che gli è reso sempre più facile attraverso il modo scientifico (divenuto possibile) e razionale di trattare tutte le cose da insegnare (ricordo soltanto, a modo di esempio, ciò che [Karl] Becker ha fatto per la grammatica tedesca); e attraverso questa nobilitazione esso potrà scacciare il suo avversario dalla sua solida posizione. Siccome tanto il realismo quanto l’umanesimo partono dal principio che qualunque educazione è destinata a procurare all’uomo una capacità; e siccome tutt’e due concordano nel dire che — per esempio — sul piano del linguaggio si devono abituare gli uomini ad usare tutti i modi di dire che servono ad esprimersi, e sul piano della matematica si devono loro inculcare tutti i modi della dimostrazione, e così via; siccome tutt’e due concordano che si debba mirare a raggiungere la maestria nel maneggio della materia, cioè ad esserne padroni, allora non potrà certo non succedere che infine anche il realismo riconosca come scopo ultimo la formazione del gusto e metta in prima linea l’attività formatrice (come in parte già ora succede). Infatti in campo educativo tutta la materia data ha il suo valore soltanto per il fatto che i bambini imparano a far qualcosa con essa, ad usarla. È bensì vero — come sostengono i realisti — che rimane impresso soltanto ciò che è utile e che serve a qualcosa; però l’utilità dovrà essere creata soltanto nel formare, nel generalizzare, nel presentare, e non si potrà respingere quest’esigenza umanistica. Gli umanisti hanno ragione nel volere principalmente l’educazione formale; hanno torto nel non trovarla nella padronanza di qualunque materia. I realisti domandano una cosa giusta quando dicono che ogni materia deve cominciare ad essere trattata a scuola; ma sbagliano, quando non vogliono considerare come scopo principale l’educazione formale. Se il realismo esercita il giusto auto-rinnegamento e non si abbandona a traviamenti materialistici, può giungere a superare così il suo avversario e insieme a mettersi d’accordo con lui. Ma perché gli siamo ostili? Il realismo depone dunque davvero il fardello dei suoi vecchi princìpi ed è all’altezza dei tempi? Tutto resta da giudicare da qui: se si riconosce nell’idea che il nostro tempo si è conquistata come la cosa più cara o se occupa un posto stazionario dietro il nostro tempo. Deve cadere quell’inestinguibile paura, con cui i realisti rifuggono dall’astrazione e dalla speculazione. A questo scopo voglio addurre alcuni passi di Heinsius, che su questo punto non cede ai rigidi realisti e risparmia a me di citarli, il che mi sarebbe pur facile. A p. 9 Heinsius dice: “Negli istituti di cultura superiore si sentiva parlare dei sistemi filosofici greci, di Aristotele e Platone, ma anche dei sistemi filosofici moderni, di Kant (che presenta come indimostrabili le idee di Dio, della libertà, dell’immortalità), di Johann Gottlieb Fichte (che mette l’ordinamento morale del mondo al posto del Dio personale), di Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Hegel, Johann Friedrich Herbart, Karl Christian Krause, e come possono altrimenti definirsi tutti gli scopritori e annunciatori di una sapienza sovrumana. Ma che cosa dobbiamo fare noi — ci si chiede —, che cosa deve fare la nazione tedesca delle fantasticherie idealistiche, che non appartengono né alle scienze empiriche e positive né alla vita pratica, e neppure giovano allo Stato? Che ce ne facciamo di un sapere oscuro, che serve soltanto a confondere lo spirito del tempo, che conduce ad essere miscredenti e atei, che divide gli animi, che fa scappare gli studenti dalle cattedre dei suoi apostoli, e che addirittura rende oscura la nostra lingua nazionale, dato che trasforma in mistici enigmi i più chiari concetti della sana intelligenza umana? È questa la sapienza che deve educare i nostri giovani a diventare uomini moralmente buoni, ad essere persone riflessive e ragionevoli, fedeli cittadini, lavoratori utili e valenti nella loro professione, mariti amorosi e padri solerti nell’impiantare il benessere della loro famiglia?”. E a p. 45 Heinsius dice: “Se guardiamo la filosofia e la teologia, che come scienze del pensiero e della fede stanno in prima linea in ordine al bene del mondo, che cosa sono diventate attraverso i loro attriti vicendevoli, ai quali Lutero e Leibniz hanno aperto la strada? Il dualismo, il materialismo, lo spiritualismo, il naturalismo, il panteismo, il realismo, l’idealismo, il soprannaturalismo, il razionalismo, il misticismo e come altro si definiscono tutti gli “ismi” astrusi di speculazioni e sentimenti eccentrici: che beneficio hanno poi arrecato allo Stato, alla Chiesa, alle arti, alla cultura popolare? Il pensare e il sapere si è certo ampliato quantitativamente; ma il pensiero è forse diventato più chiaro e il sapere più sicuro? La religione, in quanto dogma, è più pura; ma la fede soggettiva è più confusa, indebolita, infranta nei suoi sostegni, scossa dalla critica e dall’ermeneutica, o trasformata in fanatismo oppure in ipocrisia farisaica. E la Chiesa? Ohimé, la sua vita è disunione e morte. Non è così?”. — Perché i realisti si mostrano così mal disposti verso la filosofia? Perché disconoscono la propria vocazione e vogliono a tutta forza restare limitati invece di sciogliersi da ogni limite. Perché odiano l’astrazione? — Perché sono essi astratti; perché astraggono dal perfezionamento di se stessi, dallo slancio verso la verità che redime.
Vogliamo forse consegnare nascostamente la pedagogia ai filosofi? Tutt’altro! Si comporterebbero in modo piuttosto goffo. Essa venga affidata soltanto a coloro che sono più che filosofi, e perciò anche infinitamente di più che umanisti o realisti. Questi ultimi fiutano giustamente che anche i filosofi dovranno tramontare; ma non sospettano che al loro tramonto seguirà una resurrezione. Essi astraggono dalla filosofia per raggiungere senza di essa il cielo dei loro scopi; la scavalcano e cadono nell’abisso della loro vacuità: come l’ebreo errante, essi sono immortali ma non eterni. Solo i filosofi possono morire e trovare nella morte il loro vero io. Con essi muore il periodo della Riforma, l’epoca del sapere. Sì, è proprio così: il sapere stesso deve morire per rifiorire nella morte come volontà. La libertà di pensiero, di fede e di coscienza, questi splendidi fiori di tre secoli, risprofonderanno nel grembo materno della terra, affinché una nuova libertà, quella del volere, si nutra dei suoi succhi più nobili. Il sapere e la libertà del sapere fu l’ideale di quel tempo, che (in quanto ideale) è stato finalmente raggiunto all’apice della filosofia: a questo punto l’eroe costruirà a se stesso il rogo e metterà in salvo nell’Olimpo la sua parte eterna. Con la filosofia si conclude il nostro passato, e i filosofi sono i Raffaello del periodo del pensiero: in essi il vecchio principio si attua in brillante sfarzo di colori, e, ringiovanendosi, da temporale e caduco diventa eterno. D’ora in poi chi vuol conservare il sapere, lo perderà; ma chi vi rinuncia, lo conquisterà. Soltanto i filosofi sono chiamati a queste rinunce e a questa conquista: essi stanno davanti al fuoco fiammeggiante e, come l’eroe morente, devono bruciare la loro spoglia mortale affinché lo spirito imperituro diventi libero.
Per quanto si può, si deve parlare in modo piuttosto comprensibile. Infatti l’errore dei nostri giorni sta pur sempre nel fatto che il sapere resta come incompiuto e non perspicuo; nel fatto che rimane un sapere materiale e formale, positivo, e non si eleva a sapere assoluto; nel fatto che ci pesa addosso come un fardello. Come quell’uomo dell’antichità dobbiamo desiderare di dimenticare, dobbiamo bere al Lete che rende beati: altrimenti non torneremo in noi. Tutto ciò che è grande deve saper morire e trasfigurarsi con la propria morte; soltanto ciò che è miserevole raccoglie, come l’artritico tribunale della camera imperiale, atti su atti e brilla per millenni in graziose figure di porcellana, come l’intramontabile puerilità dei Cinesi.
La vera scienza trova il suo compimento, cessando di essere sapere e ridiventando un semplice impulso umano: la volontà. Così, per esempio, chi per anni ha riflettuto sulla sua “vocazione di uomo”, immergerà tutte le preoccupazioni e le peregrinazioni del suo ricercare nel Lete di un semplice sentimento, di un impulso, che da quell’ora in poi lo guiderà pian piano, nello stesso momento in cui avrà trovato quell’impulso. La “vocazione dell’uomo”, che questi ha ricercato per i mille sentieri e viottoli dell’indagine, erompe all’improvviso, appena è stata riconosciuta, nella fiamma del sapere morale e incendia il petto dell’uomo che non è più disperso nella ricerca, ma è diventato di nuovo fresco e ingenuo.
Orsù, o scolaro, bagna di buona voglia
il terreno petto nell’aurora mattutina.
[W. Goethe, Faust]
Questa è la fine e insieme l’immortalità del sapere: il sapere, che ridivenuto semplice e immediato, si dice e si rivela di nuovo e in figura nuova in ogni azione come volontà. Non la volontà è originariamente ciò che è giusto, come volentieri ci vorrebbero assicurare i pratici; non si può scavalcare il voler sapere per star subito nella volontà; ma il sapere perfeziona se stesso in volontà, quando si spiritualizza e come spirito, “che si costruisce il corpo”, crea se stesso. Perciò ogni educazione, che non si prefigga questa morte e questa ascensione al cielo del sapere, porta con sé tutti i difetti della caducità, la formalità e la materialità, il dandismo e l’industrialismo. Un sapere, che non si purifichi e concentri tanto da portare a volere; o, in altre parole, un sapere che mi appesantisca soltanto come un avere o un possesso invece di fondersi completamente con me in modo tale che l’io, mobile e libero e senza l’impaccio di un possesso da trascinarsi appresso, cammini per il mondo con animo vispo; un sapere dunque, che non sia diventato qualcosa di personale, fornisce una misera preparazione alla vita. Non lo si vuol lasciare arrivare all’astrazione, che sola però garantisce la vera consacrazione ad ogni sapere concreto: infatti l’astrazione uccide realmente la materia e la trasforma in spirito, ma assicura l’autentica e definitiva liberazione. Solo nell’astrazione sta la libertà: uomo libero è soltanto chi supera il dato e riprende nell’unità del suo Io anche ciò che ne ha ricavato colla sua ricerca.
Il nostro tempo, dopo aver raggiunto la libertà di pensiero, mira a perfezionare questa libertà di pensiero fino a trasformarla in libertà di volere al fine di attuare questa libertà di volere come il principio di una nuova epoca. Perciò anche il fine ultimo dell’educazione non può più essere il sapere, ma il volere nato dal sapere; e perciò ancora l’espressione eloquente di ciò che l’educazione deve ottenere è l’uomo personale o libero. La verità stessa non consiste in altro se non nel rivelare se stessi: e a questo appartiene il ritrovare se stessi, la liberazione da tutto ciò che è estraneo, l’estrema astrazione o la liquidazione di ogni autorità, la riconquista dell’ingenuità. Ora la scuola non fornisce tali uomini veri: se pur tuttavia essi ci sono, lo sono nonostante la scuola. Questa ci fa bensì padroni delle cose e tutt’al più anche padroni della nostra natura; ma non ci rende nature libere. Ma ne sun sapere, per quanto profondo ed esteso, nessun ingegno e acutezza di mente, nessuna sottigliezza dialettica ci preserva dalla meschinità del pensare e del volere. Non è davvero merito della scuola, se noi da lei non portiamo via l’egoismo. Ogni genere di vanità correlativa, ogni genere di avidità di guadagno, di ambizione, di cariche, di sollecitudine meccanica e servile, di ambiguità, ecc., si combina sia col sapere diffuso sia con l’elegante cultura classica. E siccome tutta questa istruzione non esercita alcun influsso sul nostro agire morale, spesso essa subisce il destino d’essere dimenticata nella misura in cui non serve: ci si scrolla di dosso la polvere della scuola. E tutto ciò avviene perché la cultura viene ricercata soltanto nei suoi aspetti formali o materiali o al massimo in tutt’e due, ma non nella verità, nell’educazione del vero uomo. È vero che i realisti fanno un progresso, domandando che lo scolaro avverta e capisca ciò che impara: [Friedrich] Diesterweg, per esempio, la sa lunga sul “principio della sperimentazione”. Ma anche qui l’oggetto non è la verità, ma qualcosa di positivo (in cui c’è anche da contare la religione), che lo scolaro è condotto a mettere d’accordo e in rapporto con la somma del suo rimanente sapere positivo, però senza elevarsi al di sopra del grezzo sperimentare e guardare, e senza alcun incitamento a lavorare ulteriormente con l’intelligenza, che egli ha acquistato guardando, e a produrre ulteriormente con l’intelligenza, cioè ad essere speculativo, il che in pratica equivale ad essere morale e a comportarsi da persona morale. Al contrario si pensa che debba bastare educare persone sensate; non si ha di mira in verità di educare degli uomini capaci di usare la ragione. Capire cose e dati, la cosa finisce qui: comprendere se stessi non sembra essere cosa da tutti. Così si promuove il senso del positivo, nel suo aspetto formale o anche materiale; e si insegna ad accontentarsi del positivo. Come in certe altre sfere, così anche in quella pedagogica non si lascia che la libertà si affermi, che la forza dell’opposizione si manifesti: si vuole sottomissione. Non si mira che ad un’istruzione formale e materiale; per cui dai serragli degli umanisti escono soltanto degli eruditi e da quelli dei realisti soltanto degli “utili cittadini”: entrambi però non sono che uomini sottomessi. Il nostro buon fondo di rozzezza viene violentemente soffocato e con esso lo sviluppo del sapere verso la libera volontà. Il risultato della vita scolastica è allora la pedanteria. Come da bambini ci siamo abituati ad adattarci a tutto quanto ci veniva imposto, così più tardi ci adattiamo e rassegniamo alla vita positiva, ci rassegniamo al tempo, diventiamo suoi servi e cosiddetti buoni cittadini. Ma allora dove mai, al posto della sottomissione finora alimentata, si rafforza uno spirito di opposizione? Dove mai invece di una persona che impara si educa una persona creativa? Dove l’insegnante si trasforma in collaboratore? Dove ancora l’insegnante riconosce che il sapere si cambia in volere? Dove mai l’uomo libero, e non puramente l’uomo colto, costituisce il fine dell’educazione? Purtroppo in pochi posti. Si deve diffondere la persuasione che compito supremo dell’uomo non è la cultura, la civilizzazione, ma lo svolgere un’attività propria. Verrà forse per questo trascurata la cultura? Proprio no; come non intendiamo perdere la libertà di pensiero, quando vogliamo che essa passi e si trasfiguri nella libertà del volere. Se l’uomo mette innanzitutto il suo onore nel sentire se stesso, nel conoscere se stesso e nello svolgere una sua attività — e cioè nel sentimento di sé, nella coscienza di sé e nella libertà —, allora egli mirerà da solo a bandire l’ignoranza la quale trasforma l’oggetto, che resta a lui estraneo e incompreso, in un limite e in un ostacolo per la sua conoscenza di se stesso. Se si risveglia negli uomini l’idea della libertà, i liberi si libereranno incessantemente daccapo; se invece si fa di loro soltanto degli uomini colti, allora essi si adatteranno sempre alle circostanze in modo sommamente educato ed elegante e degenereranno in servili anime da lacchè. Che cosa sono per lo più i nostri soggetti colti e ricchi d’ingegno? Sogghignanti padroni di schiavi e schiavi essi stessi.
I realisti possono vantarsi della prerogativa che essi non educano persone puramente colte, ma giudiziosi e utili cittadini. Anzi il loro principio: “Si insegni tutto in ordine alla vita pratica”, potrebbe addirittura passare per la parola d’ordine del nostro tempo, purché però essi non intendano la prassi in senso grossolano. La vera prassi non è farsi strada nella vita; e il Sapere ha un pregio più elevato che non quello di potere essere usato per raggiungere scopi pratici. La prassi suprema è piuttosto che un uomo libero riveli se stesso; e il sapere, che sa morire, è la libertà che dà la vita. “La vita pratica”! Dicendo questo, si crede di aver detto molto. Eppure gli stessi animali conducono una vita del tutto pratica, non appena la madre li ha svezzati dal loro teorico stato di lattanti; e cercano il cibo a loro piacere nei boschi e nei prati oppure vengono legati al giogo di un lavoro. Peter Scheitlin, che conosce la psicologia degli animali, potrebbe spingere il paragone ancor più innanzi fin entro il campo della religione, come si può vedere dalla sua Tierseelenkunde [Psicologia degli animali], Berlino 1840: un libro molto istruttivo, proprio perché tanto accosta gli animali all’uomo civilizzato e l’uomo civilizzato agli animali. Quell’intenzione di “educare alla vita pratica” produce soltanto uomini di princìpi, che agiscono e pensano secondo le massime, ma che non sono uomini per principio; che sono spiriti legalisti, non spiriti liberi. Completamente diversi sono invece quegli uomini, nei quali la totalità del pensare e dell’agire si muove e ringiovanisce continuamente. E ancora completamente diversi sono quegli uomini, che sono fedeli alle loro convinzioni: le convinzioni stesse restano incrollabili, non pulsano come sangue arterioso continuamente rinnovato dal cuore, si irrigidiscono — per così dire — come corpi solidi, e — anche se acquisite e non imparaticce — sono pur qualcosa di positivo e per di più passano per qualcosa di sacro. Così l’educazione realistica può aver di mira dei caratteri solidi, valenti, sani, degli uomini imperterriti, dei cuori fedeli: e questo è un guadagno incalcolabile per la nostra generazione di caudatari. Ma i caratteri eterni, la cui stabilità consiste soltanto nel fluire incessante della loro quotidiana creazione di sé, e sono appunto eterni perché costruiscono se stessi in ogni momento, e perché traggono di volta in volta il loro apparire del momento dalla freschezza che non appassisce e non invecchia mai, e dalla attività creatrice del loro spirito eterno, questi caratteri eterni dunque non escono da quel tipo di educazione. Il cosiddetto carattere sano anche nel migliore dei casi è soltanto un carattere ostinato; se deve essere un carattere perfetto, deve diventare contemporaneamente un carattere sofferente, che palpita e rabbrividisce nella felice passione di un incessante ringiovanimento e di una rinascita.
E così i raggi di qualunque educazione convergono nell’unico centro, che si chiama personalità. Il sapere, per quanto erudito e profondo o vasto e chiaro possa essere, rimane pur soltanto un possesso e una proprietà, fintantoché non si fonderà e scomparirà nel punto visibile dell’io per eromperne fuori prepotentemente come volontà, come spirito trascendente e inafferrabile. Il sapere subisce questa trasformazione allorquando cessa di stare incollato soltanto ad oggetti, allorquando diventa sapere di se stesso o — se questo sembra più chiaro — un sapere dell’idea, un’auto-coscienza dello spirito. Allora esso si muta — per così dire — nell’impulso, nell’istinto dello spirito, in un sapere incosciente, di cui ciascuno si può fare almeno un’immagine confrontandolo col fatto che egli stesso ha sublimato tante e così vaste esperienze in quel semplice sentimento, che si chiama tatto: tutto quell’ampio sapere, ricavato da quelle esperienze, è concentrato in un sapere immediato, per mezzo del quale egli sui due piedi decide il da farsi. Ma il sapere deve arrivare qui, a questa immaterialità, sacrificando le sue parti mortali e, in quanto immortale, diventando volontà.
La miseria della nostra educazione è consistita fin qui per lo più nella circostanza che il sapere non si è corretto in volontà, in attuazione pratica, in pura prassi. I realisti hanno avvertito questa lacuna, ma vi hanno messo riparo in modo miserevole formando degli uomini “pratici” senza idee e non liberi. La maggior parte dei seminaristi sono un documento vivo di questa triste piega. Dirozzati alla bell’e meglio, dirozzano essi stessi; addestrati, addestrano a loro volta. Ma ogni educazione deve diventare personale; e, partendo dal sapere, deve pur tenere costantemente presente l’essenza del sapere stesso, e cioè che esso non deve mai essere possesso ma l’io stesso. In una parola, non è il sapere che deve essere formato, ma è la persona che deve giungere al dispiegamento di se stessa. La pedagogia non deve ulteriormente partire dall’idea di civilizzare, ma dall’idea di formare persone libere, caratteri sovrani; perciò la volontà, che finora è stata violentemente soffocata, non deve continuare ad essere indebolita. Se non si frena l’impulso al sapere, perché si deve frenare l’impulso al volere? Se si coltiva l’impulso al sapere, si coltivi anche l’impulso al volere. La caparbietà e la maleducazione dei bambini ha lo stesso diritto di esistere della loro avidità di sapere. Se si stimola a bella posta questa avidità di sapere, si susciti anche la forza naturale della volontà, cioè quella di opporsi. Se il bambino non impara ad avere un sentimento di se stesso, non impara appunto la cosa più importante. Non si soffochi il suo orgoglio, la sua franchezza. Contro la sua arroganza la mia libertà resta sempre garantita. Infatti se l’orgoglio del bambino degenera in tracotanza, allora il bambino mi fa violenza: questo Io non dovrò tollerare, perché io stesso sono un uomo libero come il bambino. Ma devo difendermene attraverso il comodo baluardo della autorità? No! Se oppongo il rigore della mia libertà, allora la tracotanza dei bambini cadrà da sola. Chi è uomo completo non ha bisogno di essere un’autorità. E se la franchezza esplode in impudenza, questa perderà la sua forza di fronte al dolce potere di una donna autentica, al suo carattere materno o di fronte alla fermezza di un uomo. Si è molto deboli, se si deve chiedere aiuto all’autorità; e si sbaglia, se si crede di correggere l’impudente trasformandolo in un intimorito. Esigere timore e rispetto è cosa che, come l’epoca ormai conclusa, appartiene allo stile rococò.
Di che cosa ci lamentiamo dunque, se consideriamo le carenze della nostra odierna educazione scolastica? Del fatto che le nostre scuole sono ferme ancora al vecchio principio, quello del sapere senza volontà. Il nuovo principio è quello della volontà come trasfigurazione del sapere. Dunque nessun “concordato tra scuola e vita”, ma la scuola deve essere vita; e, nella scuola e fuori della scuola, il compito deve essere l’auto-rivelazione della persona. Tutta l’educazione scolastica sia educazione alla libertà, non alla sottomissione: essere liberi, questa è la vera vita. L’aver capito che l’umanesimo è senza vita avrebbe dovuto spingere il realismo a farsi questa convinzione. Invece, della cultura umanistica si avvertì soltanto che essa non sapeva rendere abili alla cosiddetta vita pratica (borghese, non personale); e, in opposizione a quella cultura puramente formale, ci si volse ad una cultura materiale pensando che, attraverso la comunicazione della materia utile nei rapporti col mondo, non solo si sarebbe superato il formalismo ma anche si sarebbero soddisfatti i bisogni più profondi. Ma anche l’educazione pratica resta ancora largamente indietro in confronto all’educazione personale e libera; e se quella fornisce la capacità di farsi strada nella vita, questa procura la forza di far sprizzare da sé la scintilla della vera vita; se quella prepara a sentirsi come a casa in un determinato mondo, questa insegna a sentirsi a casa con se stessi. Non è ancora tutto, se ci comportiamo come membri della società; potremo invece comportarci anche perfettamente come membri della società, solo allorquando saremo uomini liberi, persone auto-creative (che creano se stesse).
Ora, se l’idea e l’impulso del tempo nuovo è la libertà del volere, la pedagogia deve tener di mira, come suo principio e suo fine, la formazione della libera personalità. Umanisti e realisti si limitano ancora al sapere, e tutt’al più si preoccupano del libero pensiero e, attraverso una liberazione teorica, fanno di noi dei liberi pensatori. Tuttavia, attraverso il sapere, noi diventiamo liberi soltanto interiormente (una libertà, alla quale del resto mai si deve rinunciare); ma con tutta la libertà di coscienza e di pensiero noi esteriormente possiamo restare schiavi e in soggezione. E tuttavia proprio quella libertà, che è esteriore per il sapere, è per la volontà la libertà interiore e vera, la libertà morale.
Soltanto in questa cultura che è universale, perché in essa chi sta in basso si incontra con chi sta in alto, noi incontriamo la vera uguaglianza di tutti, l’uguaglianza delle persone libere: soltanto la libertà è uguaglianza.
Se si vuole un nome, al di sopra degli umanisti e dei realisti si possono mettere i “morali” (così si dice in Germania), perché il loro scopo ultimo è l’educazione morale. Ma allora sorge subito l’obiezione che costoro ci vorranno formare un’altra volta in vista di leggi di morale positiva, come in fondo è sempre avvenuto finora. Ma neppure io lo voglio solo per il fatto che è avvenuto finora; e il fatto che voglio che si risvegli la capacità di opporsi e che l’ostinazione non sia spezzata ma trasfigurata, questo potrebbe sufficientemente chiarire la differenza. Intanto per distinguere l’esigenza posta qui anche dalle migliori aspirazioni dei realisti – come, per esempio, quella che esprime il programma appena pubblicato di Adolph Diesterweg, a p. 36: “Il punto debole delle nostre scuole sta nel difetto di formazione del carattere, come è in genere il punto debole della nostra educazione. Noi non formiamo ad un modo di sentire”. Preferisco dire che noi d’ora in poi abbiamo bisogno di un’educazione personale (e non di imprimere un modo di sentire). Se un’altra volta si vogliono chiamare con un nome in “isti” coloro che seguono questo principio, per conto mio chiamiamoli personalisti.
Perciò, per ricordare ancora Heinsius, “il vivo desiderio della nazione che la scuola venga maggiormente avvicinata alla vita” resta soddisfatto soltanto se si trova la vera vita nella piena personalità, indipendenza e libertà. Infatti chi mira a questo scopo non rinuncia a nulla di quel che di buono hanno l’umanesimo e il realismo, ma li eleva e li nobilita entrambi infinitamente di più. E anche il punto di vista nazionale, che Heinsius sostiene, non può essere lodato come quello giusto, perché questo è invece soltanto il punto di vista personale. Solo l’uomo libero e personale è un buon cittadino (realisti), e anche in mancanza di una cultura specifica (erudita, artistica, ecc.) è un giudice pieno di buon gusto (umanisti).
Se, per concludere, dobbiamo esprimere in brevi parole verso quale traguardo il nostro tempo si deve dirigere, ci sia lecito formulare press’a poco così il necessario tramonto della scienza senza volontà e il sorgere del volere cosciente di sé, che si compie nello splendore solare della persona libera: il sapere deve morire per risorgere di nuovo come volontà e per ricrearsi ogni giorno da capo come persona libera.