Nel granaio dello stàrosta di Mironosìtskoe, proprio in fondo
al villaggio, due cacciatori attardati si erano sistemati per
passarvi la notte. Erano il veterinario Ivàn Ivànyč e il professore
di liceo Bùrkin.
Ivàn Ivànyč aveva un cognome alquanto strano, Čimša-
Gimalàjskij: ma poiché quel doppio cognome non si addiceva alla
sua persona, lo chiamavano semplicemente, in tutto il distretto,
col nome e il patronimico; abitava in città accanto a un deposito
di cavalli, ed era venuto a caccia per prendere un po’ d’aria. Il
professore trascorreva ogni estate presso il conte P. e si trovava
in quel villaggio come a casa sua.
I cacciatori non dormivano; Ivàn Ivànyč, un vecchione magro
dai lunghi baffi, fumava la pipa accanto all’uscio del granaio
rischiarato dalla luna, e Bùrkin, disteso dentro, sul fieno, era
invisibile nell’ombra.
I due uomini si erano raccontati varie storie. Tra l’altro,
avevano parlato della moglie dello stàrosta, Màvra, donna
vigorosa e tutt’altro che sciocca, che mai era uscita dal paese
nativo e mai aveva veduto una città né una ferrovia, e negli
ultimi dieci anni era rimasta sempre seduta accanto alla stufa,
uscendo di casa solo la notte.
«Che c’è di strano?» domandò Bùrkin. «C’è parecchia gente
solitaria per natura che, come il gambero, ha gusti eremitici, o,
come la lumaca, cerca di nascondersi nel guscio. Forse questo è
un fenomeno atavico, un ritorno all’età in cui l’antenato
dell’uomo non era ancora un animale sociale e viveva solitarionella sua caverna; oppure può darsi semplicemente che sia una
delle varietà del carattere sociale; chi lo sa? Io non sono un
naturalista e non tocca a me risolvere simili problemi; voglio dire
solo che persone come Màvra non sono un fenomeno raro. Ecco,
per esempio, senza andar più lontano, circa due mesi or sono
morì nella nostra città un certo Bèlikov, mio collega, professore
di greco. Di certo avete udito parlare di lui. Si faceva notare
perché non usciva nemmeno col bel tempo se non col
parapioggia, con le soprascarpe, e con un soprabito foderato. Il
suo parapioggia aveva la fodera, il suo orologio aveva un
astuccio di pelle grigia, il suo temperino, quando lo tirava fuori
per temperare la matita, aveva anch’esso un astuccio; pareva che
stesse in una fodera perfino il suo viso, perché egli lo
nascondeva sempre nel bavero rialzato. Portava occhiali
affumicati, un panciotto di lana; metteva cotone nelle orecchie,
e, prendendo una vettura, faceva tirar su il soffietto. In breve, si
osservava in costui il desiderio irresistibile e costante di
rannicchiarsi il più possibile in un guscio: di costruirsi, per dir
così, un astuccio che lo isolasse e lo riparasse dagli influssi
esterni. La realtà lo sgomentava, lo urtava, lo teneva in una
perpetua emozione; e forse era per giustificare il suo sgomento
o disgusto del reale, che instancabilmente vantava ciò ch’è
passato ed inesistente. Le lingue antiche, che insegnava, erano
per lui come le sue soprascarpe e il suo parapioggia, e di esse si
faceva schermo contro la realtà della vita.
«‹Ah,› diceva con voce dolce, ‹come sonora e bella è la lingua
greca!›»
«E in appoggio a quanto diceva, chiudendo un occhio e
alzando un dito pronunciava: Antropos!
«II suo pensiero, Bèlikov si studiava di ripararlo, pur esso,
dentro un astuccio. Per lui erano chiare soltanto le circolari e gli
articoli dei giornali in cui si vietava qualche cosa. Se le circolari
vietavano agli alunni di uscire per la strada dopo le nove di sera,
o in qualche parte si stampava qualcosa contro l’amore fisico, ciò
era chiaro, ben determinato: è proibito, e basta! Nei permessi,
invece, nelle licenze, c’era sempre per lui alcunché di sospetto, divago e di incompleto. Quando si dava autorizzazione di aprire in
città un circolo filodrammatico, una stanza di lettura, una sala da
tè, Bèlikov scuoteva il capo, dicendosi a voce bassa:
«‹Questo è bene, evidentemente, questo va benissimo;
purché non succeda poi qualche cosa!›»
«Le infrazioni, di qualunque sorta fossero, le violazioni di
regole acquisite, lo gettavano nell’abbattimento, anche quando
non lo riguardavano affatto. Uno dei suoi colleghi arrivava in
ritardo a un ufficio religioso, correva voce di non si sa che farsa
di collegiali, s’incontrava la sera tardi una bidella con un ufficiale,
ed ecco, egli si agitava e continuava a ripetere: ‹Purché non
succeda poi qualche cosa!›»
«Alle nostre riunioni ci opprimeva tutti con la sua
circospezione, con la sua diffidenza, con le sue considerazioni da
uomo nell’astuccio sulla cattiva condotta della gioventù nei
ginnasi maschili e femminili, sul chiasso che faceva in classe. ‹Ah,
purché non lo vengano a sapere i superiori! Purché non succeda
nulla!› e sosteneva che se avessimo escluso dalla seconda Petròv
e dalla quarta Egòrov, tutto sarebbe andato bene.
«E, credetelo, coi suoi sospiri, i suoi lagni, i suoi occhiali
affumicati sul faccino pallido che somigliava al musetto della
puzzola, Bèlikov ci opprimeva tutti; e noi si cedeva, si dava
qualche cattivo voto a Petròv e a Egòrov, si finiva col cacciarli dal
ginnasio.
«Bèlikov poi aveva una strana abitudine: veniva ogni tanto a
farci visita nelle nostre case. Giungeva da uno di noi e si metteva
a sedere, tacendo, come se osservasse qualche cosa. Rimaneva
seduto così per una o due ore, in silenzio, quindi se ne andava, di
nuovo. Questo si chiamava, secondo lui, mantenere buoni
rapporti coi colleghi. Evidentemente, venire da noi e restare
seduto era una cosa penosa per tutti, ma lui veniva lo stesso
perché lo considerava un dovere, un dovere di buon camerata.
Noi, suoi colleghi, avevamo di lui un certo timore. Anche il
preside lo temeva. Figuratevi, eravamo tutti abituati a pensare
con le nostre teste, nella maniera più aperta, educati sul modello
di Turgènev, di Ščedrin; malgrado ciò, il brav’uomo che nonabbandonava un istante le soprascarpe né il parapioggia, ci fece
venire il fiato grosso, durante quindici anni, a noi e a tutto il
liceo.
«Il liceo, non sarebbe stato nulla; addirittura opprimeva la
città. Le nostre signore non organizzavano degli spettacoli in un
giorno di sabato: temevano che egli venisse a saperlo. I
sacerdoti, davanti a lui, si sentivano imbarazzati a mangiare di
grasso e a giocare alle carte. Sotto l’influsso di un uomo come
Bèlikov, in questi ultimi dieci o quindici anni, si finì tutti, in città,
per aver paura di tutto. Si aveva paura di parlare ad alta voce, di
spedire le lettere, di fare delle conoscenze, di leggere dei libri, di
aiutare i poveri, di insegnare a leggere e a scrivere.»
Ivàn Ivànyč, avendo qualche cosa da dire, tossicchiò, accese
la pipa e guardò la luna. Poi disse, scandendo le parole:
«Già, degli uomini riflessivi, per bene, che leggono Ščedrìn,
Turgènev e altri, si sottomettevano, tolleravano tutto. Ecco a che
punto si era…»
«Bèlikov,» continuò Bùrkin, «abitava nella stessa mia casa,
sullo stesso pianerottolo; le nostre porte si guardavano, ci si
vedeva sovente e io conoscevo la sua vita privata. A casa sua,
sempre la stessa storia, vestaglia da camera e papalina; e
persiane, catenacci e tutta una serie di misure di protezione, di
proibizioni, di restrizioni e di ‹Ah, purché non succeda qualche
cosa!›»
«Mangiare di magro è nocivo, e mangiare di grasso non
poteva sempre, perché la gente avrebbe detto che Bèlikov non
osservava i digiuni. Mangiava quindi pesce persico al burro, un
alimento né magro né grasso. Non teneva servitù femminile
temendo che si pensasse male di lui. Aveva per cuoco un
brav’uomo di sessant’anni, ubriacone e mezzo matto, di nome
Afanàsij, il quale, essendo stato una volta attendente, sapeva un
po’ di cucina. Afanàsij stava di solito vicino alla porta con le
braccia incrociate, borbottando sempre la stessa cosa, con un
profondo sospiro:
«‹Ce n’è molti, oggi di quei là!›»«La stanza da letto di Bèlikov era piccola come una scatola.
Sul letto teneva le cortine e, coricandosi, si tirava il lenzuolo
sopra il capo: aveva caldo e scoppiava, il vento scoteva le porte
chiuse e urlava nel camino, dalla cucina venivano dei sospiri, dei
sospiri lugubri.
«E Bèlikov tremava sotto le coperte. Aveva paura che gli
capitasse qualche cosa; paura che Afanàsij lo strozzasse, paura
che i ladri entrassero; e per tutta la notte aveva sogni agitati. Al
mattino, quando s’andava insieme al liceo, era pallido e
malinconico, si vedeva che il liceo affollato gli metteva paura e
ripugnava a tutto il suo essere, e che riusciva penoso, a un uomo
così solitario per natura, di camminare al mio fianco.
«‹Si fa tanto chiasso nelle nostre aule,› mi diceva tentando di
trovare una ragione al suo interno disagio, ‹tanto chiasso, mi fa
paura…›»
«Potete adesso immaginarvelo, codesto professore di greco,
codest’uomo tutto dentro un astuccio, sul punto di sposarsi…»
Ivàn Ivànyč si voltò vivamente verso Bùrkin e gli disse:
«Scherzate…»
«Sì, per quanto strano,» ripeté Bùrkin, «egli fu in procinto di
prender moglie. Un nuovo professore di storia e geografia, un
certo Kovalènko, Michaìl Savvìč, un ucraino, era stato nominato
nel nostro liceo. Arrivò accompagnato dalla sorella, Vàrenka. Era
giovane, alto, bruno, con mani enormi; e si vedeva subito dal suo
viso che aveva una voce di basso: e invero la sua voce pareva
uscire da una botte. Sua sorella, Vàrenka non era più
giovanissima, sulla trentina, ma alta, ben fatta, con sopracciglia
nere e gote rosse. Insomma, non una zitella, ma un amore di
ragazza, sveglia di mente e vivace, appassionata alle canzoni
piccolorusse che cantava di continuo; e sempre pronta alle risa.
Per ogni minima cosa, scoppiava in risate sonore: ah, ah, ah…
«La prima conoscenza un po’ approfondita con i Kovalènko
avvenne alla festa del preside. In mezzo a professori severi e
noiosi che si trovavano là come per obbligo, vedemmo a un
tratto sorgere dalle onde una nuova Afrodite. Teneva le mani
sulle anche, rideva, cantava, danzava… Cantava con foga: I ventimuggono… Poi una romanza, e un’altra ancora, e ancora un’altra.
Ci entusiasmò tutti, compreso Bèlikov, il quale le si sedette
accanto, e sorridendole con dolcezza le disse:
«‹La lingua ucraina ricorda per la sua dolcezza e la sua
gradevole sonorità la lingua greca antica.›»
«Lusingata, essa si mise a raccontare con molto sentimento e
convinzione che possedeva nel distretto di Gadiac una fattoria,
abitata da sua madre, dove maturavano pere, meloni e
melanzane grosse così, e che laggiù si faceva una zuppa con
barbe rosse e turchine così buona ‹da far svenire›.
«Noi l’ascoltavamo; e subito avemmo tutti la stessa idea.
«‹Sarebbe bello sposarli, quei due,› bisbigliò la moglie del
preside.
«Ci ricordammo ad un tratto, che il nostro Bèlikov, difatti, era
scapolo; e ci parve strano non averci fatto caso prima, non aver
rilevato un aspetto così importante della sua vita. Cosa pensava
lui delle donne, in che modo considerava una così comune
questione? Prima d’allora quel che ne pensasse non ci aveva per
nulla interessato, forse neppure ammettevamo che un uomo che
portava le soprascarpe in tutte le stagioni, e dormiva sotto un
baldacchino, potesse amare.
«‹Lui ha più di quarant’anni, lei ne ha trenta… può darsi che
lei se lo piglierebbe,› aggiunse la moglie del preside.
«Cosa mai non si fa in provincia, fra tanta noia? Quante cose
inutili, assurde! E questo avviene perché non si fa mai quello che
si dovrebbe fare. Ecco, che bisogno avevamo noi di sposare
questo Bèlikov, che neanche era immaginabile con una moglie?
Ma la moglie del preside, del censore, e tutte le signore del liceo,
si rianimarono; quasi diventarono più belle, come se avessero,
finalmente, trovato uno scopo alla loro esistenza.
«La moglie del preside affittò un palco a teatro, e noi
vedemmo lì Vàrenka raggiante, felice, con in mano un grande
ventaglio; e, al suo fianco, Bèlikov, piccolo, contorto come se lo
avessero tirato fuori da casa con le tenaglie. Avendo in seguito
offerto io stesso una piccola serata, le signore mi dissero di
invitare Vàrenka e Bèlikov. Insomma, la macchina si era mossa: sivedeva che Vàrenka non riluttava a un simile matrimonio, poiché
vivere col fratello non era cosa allegra: passavano le loro
giornate a discutere e a litigare. Ecco un esempio. Kovalènko per
la strada se ne va, grosso e atticciato, con la camicia a ricami e
un ciuffo che gli esce dal berretto sulla fronte; ha in una mano
un pacco di libri e nell’altra un grosso bastone. La sorella lo
segue portando lei pure dei libri.
«‹Tu non hai neanche letto questo, Michaìl,› dice lei a voce
alta, agitata, ‹ti dico, ti giuro, che neanche lo hai letto!
«‹Invece io ti dico che l’ho letto,› grida Michaìl battendo il
selciato col bastone.
«‹Ah mio Dio, perché ti arrabbi? Non è che una discussione
teorica.›»
«‹Ti dico che l’ho letto,› grida Kovalènko anche più forte…
«A casa loro, appena capitava un estraneo, era un fuoco di
fila. Una vita simile annoiava, evidentemente, la piccola Vàrenka.
Essa voleva una casa sua, e doveva pensare che aveva una certa
età: non era più il momento di far la difficile: avrebbe sposato un
uomo qualunque, persino un professore di greco. Bisogna
confessare che la maggior parte delle nostre ragazze
sposerebbero non si sa chi, unicamente per sposarsi. Sta di fatto
che Vàrenka cominciava a mostrare una chiara benevolenza per
il nostro Bèlikov.
«E Bèlikov? Andava da Kovalènko come veniva da noi.
Arrivava là; si sedeva, non diceva una parola. Taceva, e Vàrenka
gli cantava I venti muggono. Oppure lo guardava coi suoi occhi
neri, scoppiando poi, improvvisamente, a ridere.
«Nelle cose d’amore, e particolarmente nel matrimonio, la
suggestione ha una parte importante. Tutti i colleghi e le signore
fecero a gara per convincere Bèlikov che doveva sposarsi, e che
non gli restava se non questo da fare nella sua vita. Noi lo
felicitavamo tutti, gli dicevamo molto seriamente ogni sorta di
banalità: gli dicevamo, per esempio, che il matrimonio è una
cosa seria; Vàrenka, inoltre, era carina, interessante, era figlia di
un consigliere di Stato, e aveva una fattoria. Soprattutto, essaera la prima donna che gli avesse dimostrato della tenerezza e
della bontà.
«Egli perdette la testa e decise che, infatti, doveva sposarsi.»
«Sarebbe stato questo il momento giusto,» disse Ivàn Ivànyč,
«per portargli via le soprascarpe e il parapioggia.»
«Immaginate facilmente che si trattava di cosa impossibile.
Collocò sul suo tavolo la fotografia di Vàrenka, e venendo da me
non faceva altro che parlarmi di lei e della vita di famiglia,
dicendomi che il matrimonio è una cosa seria. Andava spesso da
Kovalènko; non mutava però in nulla il suo genere di vita. Al
contrario, la risoluzione di sposarsi produsse su di lui un effetto
increscioso: dimagrì, diventò pallido, fu come se sprofondasse di
più dentro il suo astuccio.
«‹Varvàra Savvišna mi piace,› mi diceva con un debole
sorrisetto confuso, ‹e so che ognuno ha da prender moglie, ma…
Tutto questo è accaduto così in fretta, lo sapete… Bisogna
riflettere.›»
«‹Riflettere a che?› gli chiesi. ‹Sposatevi, ecco tutto!›»
«‹No, il matrimonio è una cosa seria. Occorre anzitutto
considerarne gli obblighi, le responsabilità… Purché in seguito
non succeda nulla. Ciò mi tormenta talmente, che nemmeno
dormo più la notte. E, lo confesso, ho paura. Lei e suo fratello
hanno strani modi di pensare: ragionano stranamente: e lei ha
un carattere molto vivo. Sposarla, e dopo capitar male…›»
«E si riproponeva di continuo la stessa questione, a dispetto
della moglie del preside e di tutte le nostre signore. Pensava e
soppesava gli obblighi e le responsabilità; tuttavia andava a
passeggio quasi ogni giorno con Vàrenka, forse supponendo che
nella sua situazione fosse necessario. Veniva a parlarmi della vita
di famiglia: avrebbe fatto, secondo ogni probabilità, la sua
formale domanda e contratto uno di quei matrimoni inutili e
sciocchi, come da noi fanno migliaia di persone, per effetto di
ozio e di noia, se a un tratto, non fosse venuto a scoppiare un
kolossalischer Skandal.
«Occorre dire che il fratello di Vàrenka aveva sin dal primo
giorno preso in odio Bèlikov: non poteva vederlo.«‹Non capisco,› ci diceva alzando le spalle, ‹come voi
sopportiate questo tipo di spione, quest’individuo ripugnante!
Ah, signori, come potete vivere qui, in un’atmosfera così
soffocante, così disgustosa? Ma siete davvero dei professori, dei
maestri? Siete dei burocrati striscianti, e la vostra scuola non è
un tempio della scienza, ma un ufficio di polizia; vi si sente tanfo
di chiuso come in un corpo di guardia. No, colleghi cari, io
resterò qui ancora un po’ di tempo e dopo mi ritirerò nella mia
fattoria; me ne andrò a pescare i gamberi e a istruire i ragazzi
ucraini. Me ne andrò, e voi resterete qui col vostro Giuda!
Crepi.›»
«Rideva forte, rideva sino alle lacrime, con un riso stridulo e
acuto. Mi domandava spalancando le braccia:
«‹O che avrà da venire a casa mia? Cosa vuole? Resta là
seduto, a guardarmi…›»
«Kovalènko aveva trovato un soprannome a Bèlikov, lo
chiamava in ucraino ‹la ragnatela›.
«Noi evitavamo quindi di dirgli che sua sorella stava per
sposare la ragnatele. E allorché, un giorno, la moglie del preside
si lasciò sfuggire che sarebbe stato bene che sua sorella
sposasse un uomo tanto serio e grandemente stimato da tutti
quale era Bèlikov, Kovalènko borbottò:
«‹Questo non mi riguarda; sposi anche un rettile. Non mi
piace intrigarmi negli affari altrui.›»
«E adesso ascoltate quel che accadde.
«Non so chi fu quello spirito bizzarro che fece una caricatura
di Bèlikov con le soprascarpe, i pantaloni rimboccati, l’ombrello
aperto, a braccetto di Vàrenka, e sotto la scritta: ‹Antropos
innamorato›. La somiglianza era, ve lo assicuro, sorprendente.
Scommetto che l’artista ci aveva lavorato per più di una notte,
poiché tutti gli insegnanti del ginnasio maschile e femminile, e
anche gli impiegati, ne ricevettero una copia. Anche Bèlikov ebbe
la sua e la caricatura produsse su di lui la più tremenda
impressione. Una domenica, primo maggio, uscimmo insieme di
casa perché avevamo convenuto, tra professori e alunni, diritrovarci vicino al liceo per andare insieme nei boschi. Bèlikov
era verde, e più cupo di una nuvola burrascosa.
«‹Come la gente è malvagia, perfida!› disse con le labbra
tremanti.
«Mi fece addirittura pietà. D’improvviso, figuratevi, mentre si
camminava, arriva in bicicletta Kovalènko e dietro lui sua sorella,
pure in bicicletta: stanca, rossa, ilare, soddisfatta.
«‹Noi andiamo avanti,› gridò, ‹fa così bel tempo, così bello da
non credere!› E tutt’e due scomparvero. Da verde che era, il mio
Bèlikov diventò bianco: pareva pietrificato. Si ferma e mi guarda.
«‹Scusate,› mi disse, ‹che è dunque? O forse travedo? Credete
che sia decente, per dei professori e delle donne, andare in
bicicletta?›»
«‹E che c’è di indecente?› domandai. ‹Se ne vadano come a
loro garba.›»
«‹Ma è possibile…› esclamò stupefatto della mia calma. ‹Cosa
avete detto?›»
«E rimase talmente stordito da non voler più andare innanzi;
rientrò a casa sua.
«Il giorno dopo, tutto tremante, si stropicciava le mani
nervosamente e senza posa: gli si leggeva in viso che stava male.
Lasciò la sua classe, cosa che non gli era mai accaduta in tutta la
vita; non pranzò, e verso sera si mise dei panni pesanti, benché
fosse estate, e si avviò lentamente dai Kovalènko. Vàrenka era
uscita e suo fratello era solo.
«‹Prego, sedete,› disse Kovalènko, con freddezza e col viso
accigliato.
«Pareva avesse sonno: aveva fatto la siesta dopo colazione ed
era di cattivo umore. Bèlikov, dopo una diecina di minuti di
silenzio, cominciò:
«‹Vengo a dirvi quel che mi sta sul cuore e mi pesa: un
umorista mi ha voluto disegnare in un aspetto ridicolo, con una
persona che ci è vicina, a voi e a me. Tengo a dirvi che io non
c’entro per nulla… Non ho dato nessun pretesto a simile
canzonatura; anzi, al contrario, mi sono sempre condotto
irreprensibilmente, come deve fare ogni uomo dabbene.›»«Kovalènko restò seduto, imbronciato e silenzioso. Bèlikov
attese un poco, e riprese poi, piano, con voce triste:
«‹E ho anche qualche altra cosa da dirvi: sono professore da
lungo tempo, mentre voi siete appena agli inizi, e in quanto più
anziano di voi credo dovervi dare un avvertimento. Andare in
bicicletta è una distrazione del tutto sconveniente, per un
educatore dei giovani.›»
«‹E perché?› chiese Kovalènko, con la sua voce di basso.
«‹Forse che occorre una spiegazione, Michaìl Savvìč? Non è
facile capirlo? Se il maestro va in bicicletta, che rimane da fare
agli scolari? Non resta loro altro che camminare sulla testa. E dal
momento che ciò non è autorizzato da una circolare, è chiaro
che non è permesso. Ieri mi sono spaventato: quando vidi vostra
sorella non credevo ai miei occhi. Una donna, una signorina in
velocipede! orribile!›»
«‹Insomma, cosa volete?›»
«‹Non desidero che una cosa: avvertirvi, Michaìl Savvìč. Siete
giovane, avete l’avvenire dinanzi a voi, dovete comportarvi con
molta, molta prudenza. Vi prendete troppa libertà! Oh, se ve ne
prendete! Portate delle camicie ricamate, circolate di continuo in
città tenendo non si sa che libri; e adesso, in velocipede! Il
preside saprà che voi e vostra sorella andate in bicicletta e ciò
arriverà sino agli orecchi del provveditore… Non ne verrà nulla di
buono!›»
«‹Il fatto che mia sorella ed io giriamo in bicicletta non
riguarda nessuno!› esclamò Kovalènko diventando rosso fuoco.
‹Chi si impiccia degli affari miei privati e domestici, lo mando al
diavolo!›»
«Bèlikov impallidì e si alzò.
«‹Se la prendete su questo tono, non posso continuare,›
disse. ‹Vi prego di non parlare così, in mia presenza, dei
superiori. Dovete comportarvi con rispetto verso le autorità.›»
«‹Ho forse detto alcunché di male nei loro riguardi?› chiese
Kovalènko guardandolo con collera. ‹Lasciatemi in pace, per
favore. Io sono un uomo serio e non voglio parlare con uno
come voi. A me non piacciono le spie.›»«Bèlikov, coi nervi sossopra, si mise il soprabito. Sembrava
atterrito, era la prima volta nella sua vita che udiva grossolanità
simili.
«‹Potete dire quel che volete,› fece uscendo sul pianerottolo.
‹Devo solamente avvertirvi che qualcuno forse ci ha inteso, e
che, al fine di non veder alterato il nostro discorso, e perché non
vi siano conseguenze, mi trovo obbligato a trasmettere al signor
preside un sunto della nostra conversazione.., nelle sue grandi
linee. Sono costretto a farlo.›»
«‹Trasmettere? Prendi qua, e vaglielo a trasmettere!…›»
«Kovalènko lo afferrò per la collottola, lo spinse in avanti.
Bèlikov ruzzolò giù per le scale, facendo un gran rumore con le
sue calosce. Benché la scala fosse lunga e ripida, capitombolò
sino in fondo senza farsi male. Si levò in piedi e si tastò il naso,
per accertarsi che gli occhiali non si fossero rotti.
«Ma in quel punto, e mentre ruzzolava, Vàrenka era accorsa
con due signore. Rimasero giù a guardare; e ciò fu per Bèlikov
ancor più terribile di tutto il resto.
«Sarebbe stato meglio, così gli sembrava, che si fosse rotto il
collo e le gambe, anziché apparire ridicolo. Adesso, tutta quanta
la città lo avrebbe saputo! Lo avrebbe saputo il provveditore…
Ah, purché non succedesse qualche cosa! Lo avrebbero di nuovo
messo in caricatura ed egli avrebbe finito per dover presentare
le sue dimissioni. Mentre Bèlikov si rialzava da terra, Vàrenka lo
riconobbe, e vedendo quella sua strana faccia, il suo soprabito
spiegazzato, le sue soprascarpe di caucciù, e non,
comprendendo ancora quel che era successo, supponendo anzi
che così, casualmente, fosse caduto per le scale, non ebbe
ritegno e si abbandonò a uno scoppio di risa che risuonò per
tutta la casa.
«‹Ah, ah, ah…›»
«Questo ah, ah, ah, tumultuoso, turbinante, decise tutto,
matrimonio e vita terrestre di Bèlikov. Egli non capì nulla di ciò
che diceva Vàrenka e non vide più nulla. Rientrato a casa levò via,
immediatamente, il ritratto di lei dal tavolo; si coricò, e non si
alzò più.«Tre giorni dopo, Afanàsij venne da me a domandarmi se non
fosse necessario chiamare un medico, giacché qualche cosa
doveva essere accaduto al suo padrone. Mi recai da Bèlikov.
Coricato dietro le cortine del letto, sotto le coperte, egli taceva.
Alle domande non rispondeva se non con un sì o un no; nessun
altro suono. Vicino al suo letto, Afanàsij andava e veniva, cupo,
rabbuiato, con sospiri profondi, e con un puzzo di vodka come
all’osteria.
«Di lì a un mese Bèlikov morì. Andammo tutti al suo funerale;
tutti, cioè i due ginnasi e la scuola magistrale.
«Dentro la bara aveva un’espressione dolce, gradevole, quasi
lieta: come se egli fosse contento di essere finalmente stato
messo dentro un astuccio da cui non sarebbe più uscito. Aveva
raggiunto il suo ideale.
«E, come in suo onore, nel giorno della sepoltura, il tempo fu
grigio e piovoso. Avevamo tutti delle soprascarpe e degli
ombrelli. Vàrenka assistette anch’essa alle esequie; e nel
momento in cui si pose il corpo a terra versò qualche lacrima.
Osservai che gli ucraini piangono oppure ridono da scoppiare:
non hanno un umore intermedio.
«Confesso, seppellire persone come Bèlikov fa piacere.
Ritornando dal cimitero avevamo dei visi affranti e tristi: nessuno
voleva lasciar trasparire il proprio sentimento di piacere, simile a
quello che provavamo nella nostra infanzia allorché i genitori
uscivano di casa e noi correvamo per una o due ore in giardino,
assaporando piena libertà. Ah, la libertà, la libertà! Basta
un’allusione, una fievole speranza che essa possa esistere, a dare
ali all’anima, non è vero?
«Tornammo dal cimitero in una serena disposizione di spirito.
Ma trascorsa appena una settimana, la vita riprese al modo di
prima, dura, faticosa, assurda. Non era meglio di prima:
avevamo seppellito Bèlikov, ma quanti uomini ancora restavano
nel loro astuccio, nel loro guscio! Quanti ce ne saranno ancora!»
«Sì, proprio così,» disse Ivàn Ivànyč accendendo la pipa.
«Quanti ce ne saranno ancora!» ripeté Bùrkin.Il professore uscì dal granaio. Era un uomo di piccola statura,
completamente calvo, con una barba nera che gli scendeva sul
petto. Due cani uscirono insieme a lui.
«Che luna, che luna!» disse guardando il cielo.
Era già mezzanotte. Si vedeva a destra tutto il villaggio. La
lunga strada si snodava lontana, per quasi cinque verste. Tutto
era immerso in un calmo e profondo sonno. Nessun rumore. Si
stentava persino a credere che la natura potesse essere così
silenziosa.
Quando si vede in una notte di luna la larga strada di un
villaggio con le sue isbe, i pagliai, i salici addormentati, l’anima si
acqueta. Fra le ombre della notte, sgombra dalle cure e degli
affanni, dal lavoro, essa è, nel suo riposo, dolce triste e bella; e
sembra che le stelle anch’esse la guardino, con una tenera
carezza, e non esista più il male sopra la terra, e tutto sia bene.
A sinistra, in fondo al villaggio, cominciava un campo. Lo si
vedeva distendersi sino all’orizzonte: per tutto il suo spazio
inondato dal chiaro di luna non un movimento, non un rumore.
«Sì, è proprio così,» ripeté Ivàn Ivànyč. «E quando noi viviamo
in città, allo stretto, senz’aria, quando noi scriviamo delle carte
inutili, giochiamo a vint, non siamo forse in un astuccio? Ecco, se
volete vi racconterò una storia istruttiva.»
«No,» disse Bùrkin, «è tempo di dormire. A domani.»
Entrarono entrambi nel granaio, e si coricarono nel fieno.
Cominciavano ad addormentarsi quando, a un tratto, s’intesero
dei passi leggeri, top, top… Qualcuno camminava presso il
granaio; faceva alcuni passi, poi si fermava; e un minuto dopo
ricominciava, top, top… I cani si misero ad abbaiare.
«Màvra,» disse Bùrkin.
Cessò il rumore dei passi.
«Vedere e sentir mentire,» disse Ivàn Ivànyč voltandosi nel
fieno, «ed essere inoltre trattati da imbecilli perché si sopporta la
menzogna, perché si sopportano le ingiurie, l’umiliazione,
perché non si osa dichiarare apertamente che si è nel numero
delle persone oneste, libere, e ingannare se stessi e sorridere:
tutto ciò per un boccone di pane, per un cantuccio al focolare,per qualche titolo meschino che non vale un soldo. No, non si
può vivere cosi!»
«Ah, questa è un’altra faccenda, Ivàn Ivànyč,» disse il
professore. «Via, dormiamo!»
Dieci minuti dopo, Bùrkin dormiva. Ivàn Ivànyč continuava a
girarsi e sospirava. Poi si alzò, uscì; sedutosi accanto alla porta,
accese la pipa.